Luxembourg, Citè Judiciaire
Inviso ad una nomea nella migliore delle ipotesi non positiva, nella peggiore talora speciosa, i trusts, grazie soprattutto all’interpretazione della giurisprudenza, hanno avuto un successo enorme prestandosi alla protezione di situazioni non altrimenti tutelabili di tal guisa colmando lacune strutturali del diritto civile italiano.
Si pensi, empiricamente, alla tutela dei soggetti svantaggiati, alla protezione della famiglia di fatto, all’alternativa alle garanzie tipiche, alla funzione di patto di sindacato con tutela non obbligatoria ma reale e alla pianificazione del dopo di noi. Le ragioni dogmatiche del successo sono plurime; la spiegazione ultima, tuttavia, ha una costante: i trust proteggono una situazione meritevole di tutela meglio e più efficacemente di quanto non facciano gli istituti tipici perché valorizzano la libertà privata cui è demandato il compito di scegliere l’ordine delle priorità.
Ed infatti i trust selezionano gli interessi meritevoli di tutela, nell’ambito delle gerarchie tipiche, e li proteggono meglio di quanto faccia o possa fare il nostro diritto interno perché è direttamente il privato a stabilire l’ordine dei valori
Perché interessarsi al trust anche per la regolamentazioni di situazioni puramente interne al nostro ordinamento
Se ci si immerge per un istante nella coeva trincea professionale dell’uso dei trust con funzione di private wealth management, non crea, in genere, alcuna difficoltà la comprensione delle ragioni che ne motivano l’impiego per beni detenuti all’estero. Non sorprende, dunque, la scelta di un imprenditore residente, per esempio, a Milano, il quale, con lo scopo di proteggere il proprio portafoglio e la propria famiglia, istituisca un trust, per esempio, in Nuova Zelanda con dei propri averi custoditi presso una grande banca privata, per esempio, in Lussemburgo. Lo schema, mutatis mutandis, può avere infinite variabili ma la sostanza non muta: si è optato per il trust in quanto si è riconosciuto allo strumento la capacità di offrire un’efficiente funzione di protezione del patrimonio attraverso un viatico internazionalmente noto che consente di semplificare e di rendere efficiente la propria presenza all’estero.
In questo senso, che il trust, istituto cardine del diritto di common law, sia uno strumento brillante, economico ed efficiente per la gestione e la messa in sicurezza di patrimoni e situazioni estere è cosa arcinota che non merita giustificazioni. Ed infatti la conclusione può essere inferta da una constatazione d’evidenza solare piuttosto elementare: avendo una cittadinanza nota ed allargata, a latere di altri vantaggi il trust, innanzitutto, semplifica. Perché, quale sia la giurisdizione, diversamente, per esempio, dalle società commerciali (rette da un diritto toto coelo diverso a seconda della nazionalità ha una struttura nota, cristallina, con delle differenze ma con delle architravi costanti, che abilita ad avere un passaporto riconosciuto quale sia il paese di riferimento. Certo esistono tante leggi regolatrici ma chi voglia capire un trust ha a disposizione alcune costanti che semplificano enormemente l’esegesi. Con una facilità di mobilità enorme tanto che il titolare sia uno straniero, quanto che sia un italiano residente in Italia.
Sin qui, si diceva, è tutto pacifico. Il problema, semmai, è la comprensione del perché ricorrere al trust per la regolamentazione di situazioni totalmente interne al nostro ordinamento in cui, apparentemente, si complica la realtà scomodando una figura alinea al nostro bagaglio. Ostano, segnatamente e principalmente, almeno quattro problemi (i primi due paventati dal neofita, gli ultimi due in genere accampati da chi già abbia una sufficiente padronanza della materia):
a) Il trust, almeno prima facie, suscita un’immediata idiosincrasia evocando intenti più o meno latentemente elusivi, quando addirittura non palesemente fraudolenti, incompatibili con gli impieghi di normale interesse per una persona minimamente per bene o di un’entità seria (nella vulgata corrente spesso lo si dipinge come torbido rifugio per un certo sottobosco);
b) E comunque, quand’anche la nomea dell’istituto fosse positiva, non esistendo una disciplina interna di diritto italiano ed in lingua italiana il trust allontana subito i potenziali interessati chiedendosi il pratico di trincea perché dovrebbe investire il proprio tempo nella comprensione di un istituto alieno quando è nota l’ipertrofico numero degli istituti tipici disciplinati dal nostro diritto;
c) Terzo problema è il fatto che il trust in Italia sia stato caricato di attese e velleità messianiche oggettivamente insuscettibili di fausto conseguimento: nel senso che non c’è dubbio che, con un coefficiente statistico molto rilevante, al trust ci si avvicini spesso per eludere le ragioni dei creditori o dei legittimarî. E siccome il risultato è votato alla nemesi del diritto (visto che questi trust saranno in primis non riconoscibili in Italia ai sensi della Convenzione dell’Aja in quanto non conformi alla legge regolatrice estera e comunque oggetto delle azioni di riduzione e revocatorie) alla fine l’interesse per l’istituto perde di mordente operativo/pratico.
Più che altro, rispetto all’uso legittimo, ve n’è stata un’eterogenesi dei fini nel senso che il principale effetto che deriva dall’istituzione di un trust (la segregazione giuridica delle posizioni frutto del fatto che è impedita l’esecuzione di terzi – id est: i creditori – sui beni oggetto del trust) lungi dall’essere inteso, come dovrebbe essere, come mezzo di realizzazione del fine (la protezione di una situazione) è soventemente concepito quale di fatto unico movente per l’approccio allo strumento. Con la conseguenza che coloro che istituiscano un trust con l’unico scopo (quello reclamizzato dalla vulgata corrente) di eludere le ragioni di qualcuno si trovano poi a dover soccombere nei vari giudizi promossi da coloro che siano stati lesi.
d) Se le prime tre obiezioni sono scontate in chiunque, ve n’è una quarta che potrebbe aver cominciato a prendere albergo negli ultimi mesi e che potrebbe apparire più raffinata: nei primi mesi del 2015 hanno avuto amplissima eco in dottrina (con un risalto anche mediatico) alcuni precedenti giurisprudenziali di merito piuttosto perplessi, per usare un eufemismo, sul ricorso al trust.
Di qui, onde replicare all’impressione complessivamente e sostanzialmente negativa che il pratico potrebbe paventare avverso al trust, la necessità di motivare le risposte a due interrogativi: 1) perché il trust (domanda che ha il suo corollario nel perché la legittimità del trust) e 2) perché il trust in Italia (anche e soprattutto alla luce della coeva giurisprudenza in materia).
Per quanto sia paradossale, per essere estremamente concreti ed attuali nella contestazione di questa prima impressione, che speriamo di dimostrare essere fallace, partiamo da molto lontano. Leggiamo nelle Vite di Diogene Laerzio che Epicuro, morendo, occupandosi della redazione del proprio testamento, ebbe la preoccupazione di risolvere una difficile rigidità del diritto civile ateniese dell’epoca. Mi riferisco all’intestazione di un diritto reale ad un cittadino non ateniese (all’epoca proibita) e in particolare, alla problematica trasmissione ereditaria di un giardino ai propri discepoli, non ateniesi, volendo che lo stesso fosse perpetuamente destinato all’attività della propria scuola.
Semplifico perché la questione è cruciale: Epicuro vuole superare la rigidità giuridica che non gli consente l’intestazione ad un cittadino non ateniese di un bene immobile e, a latere, intende votare un giardino all’uso della propria scuola. Ma Epicuro, pure avendo un programma certamente meritevole di tutela da parte del proprio ordinamento, non trova, nel proprio coevo diritto, un istituto che serva al suo scopo. Ed è costretto, di tal guisa, a ricorrere all’intestazione fiduciaria (con ogni conseguente rischio in quanto Epicuro non ha modo di avere certezza della bontà dell’ esecuzione del programma la cui esecuzione è rimessa all’ effimera buona fede, in alcun modo incoercibile, dei soggetti nominati): intesta dunque un bene a due allievi ateniesi, imponendogli la condizione che costoro donino il giardino all’allievo di Mileto che a sua volta ne farà l’uso che crede per la scuola.
Parto da Epicuro non certo per fare della filosofia: l’esempio fa capire in maniera efficace una situazione che seguita a rimanere senza soluzione ovvero, recte, la cui soluzione esiste (l’intestazione fiduciaria) ma non è coercitivamente tutelabile in caso di trasgressione dei doveri imposti; in questo senso il problema di Epicuro è assolutamente identico, mutatis mutandis, a quello che oggi avverte chiuque comprenda di essere titolare di una situazione che, per un motivo legittimo e meritevole di tutela, non può o non vuole svolgere.
Sarò più concreto: nel problema della trasmissione del giardino, si collocano da un lato la rigidità giuridica del coevo diritto civile (che inibisce la libertà d’intestarlo a un non ateniese mentre Epicuro vuole che sia un allievo di Mileto a goderne) e, dall’altro, la difficoltà ad assicurare l’esecuzione del programma quando il soggetto di partenza non ci sarà più (Epicuro non sa se, post eius mortem, sarà data esecuzione fedele al suo programma di destinazione dell’immobile alla scuola).
Sono gli stessi problemi, si badi, sperimentati dalla maggior parte dei clienti con cui vengo quotidianamente in contatto per l’istituzione di un trust.
Penso, per esempio, al genitore del diversamente abile che intende votare la propria ricchezza alle necessità del soggetto svantaggiato e che è terrorizzato dai pericoli connessi ad una cattiva gestione del patrimonio familiare fatto dal fiduciario. Penso al genitore che voglia tutelare i nipoti dalla cattiva amministrazione del figlio che, per qualche ragione, si sa essere soggetto dissennato e capace di mandare alla rovina la ricchezza familiare. Penso al figlio che intenda tutelare i propri genitori nella loro senescenza e che sia preoccupato, per esempio, dall’ipotetica aggressione dei creditori dei propri beni che, invece, vorrebbe destinare per sempre all’utilità della propria famiglia. Penso, in genere, all’imprenditore che vuole che le proprie quote sociali siano perpetuamente votate all’utilità propria e della sua famiglia. Penso, altro esempio, ai soci che intendano creare un patto di sindacato e che sono preoccupati dal fatto che, utilizzando gli strumenti tradizionali, non hanno certezza nel caso in cui uno dei sindacanti voglia violare il patto.
Penso, con ancora maggiore efficacia, a chi voglia destinare il proprio patrimonio a finalità filantropiche e che sa bene quanto può essere disastroso affidarsi a figure tradizionali per le tantissime rigidità che informano gli istituti tradizionali. Penso ai vari fenomeni di garanzia (e l’antologia, in questa materia, contigua com’è al rapporto con i creditori nel suo complesso, è praticamente infinita). Penso, perché non si pensi che la casistica afferisca solo a una fenomenologia bagatellare del diritto legata a impieghi residuali per importanza, ai soci che vogliano munire di tutela reale (e non meramente obbligatoria) un patto di sindacato societario (certo realizzabile senza scomodare il trust ma non tutelabile se non con la forma della tutela meramente risarcitoria). Penso ai casi in cui si voglia pianificare una exit strategy da una società di capitali o alle varie problematiche connesse alla gestione di un conflitto d’interessi in cui si vuole dissociare l’amministrazione dal godimento di una rendita. Penso, in generale, a tutti quei soggetti che, per qualsivoglia legittima ragione, non possono o non vogliono essere titolari di una certa posizione giuridica soggettiva in quanto confidano nel fatto che la gestione da parte di un terzo sarebbe più efficiente magari perché l’intestazione metterebbe al riparo i beni dalla futura minaccia di un’esecuzione.
Orbene l’antologia casistica potrebbe continuare all’infinito ma quello che conta è che in tutti questi casi abbiamo delle stigmate estrinseche identiche:
• Abbiamo un intento privato che e,̀ in astratto, all’evidenza meritevole di tutela da parte dell’ordinamento (ovvero, più semplicemente, abbiamo un programma da gestire con obiettivi non solo leciti ma, nella maggior parte dei casi, ragguardevoli sotto il profilo dell’utilità sociale);
• Abbiamo delle rigidità del nostro diritto che compromettono la realizzazione in concreto delle finalità private inviso al fatto che le stesse sono pienamente meritevoli di tutela (basti considerare le difficoltà e i costi, per esempio, connessi all’istituzione di una fondazione o ai costi fiscali di una holding familiare. Oppure si pensi a chi abbia la possibilità d’istituire un patto di sindacato ma non si possa accontentare della sola tutela risarcitoria in caso di sua violazione. Ma si prenda in esame, talora, la problematica di ostacoli giuridici veri e propri quali quelli che inficiano la posizione di colui che voglia ripartire dopo un crac);
• Abbiamo un vuoto di tutela in quanto non esiste una tutela efficace ed efficiente che abortisca alla radice i rischi di un tradimento della posizione fiduciaria (non esiste certezza del fatto che il programma sia eseguito in perfetta sicurezza in quanto, tra l’altro, quei beni non sono segregati dall’esecuzione dei diritti dei terzi quali, per esempio, i creditori della persona che ha ricevuto quei beni.
Avremmo dunque bisogno di uno strumento:
• TRASPARENTE: sono tutte situazioni in cui c’è bisogno di TRASPARENZA dello strumento e della situazione creata, non si possono correre rischi ovvero non si tollerano equivoci essendo intenzione del privato creare una situazione limpida;
• EFFICIENTE: nel senso che deve trattarsi di uno strumento duttile, capace di adattarsi alle specificità della fattispecie tenendo conto di ciascuna sua peculiarità valorizzando ogni contingente precipua specificita;̀
• SICURO: non ci si possono permettere rischi; il programma deve essere rispettato con certezza impedendo delle cattive esecuzioni del programma ed eliminando rischi di qualsivoglia genere quanto all’infedeltà dell’esecutore.
Non voglio dire, perché sarei sciocco e tra l’altro non credibile, che nel nostro ordinamento faccia difetto un istituto capace di consentire efficacemente il perseguimento di un programma quando non si può o non si vuole fare da soli. Il lettore ha perfetta contezza di quanto numerosi potrebbero essere gli strumenti tradizionali.
Osservo, però, che non mi consta l’esistenza, nel nostro ordinamento, di uno strumento che sia, al contempo:
A. FLESSIBILE (ovvero capace di essere un abito sartoriale cucito sulle specificità della persona e del progetto da realizzare: penso, per esempio, alle innumerevoli rigidità del fondo patrimoniale);
B. SEMPLICE (molti degli strumenti ipoteticamente impiegabili sono enormemente complessi e costosi. Penso, per esempio, alla fondazione per un progetto filantropico. Penso, per quel che concerne i costi, alla costituzione di una holding familiare);
C. COMPLETAMENTE TRASPARENTE E AL CONTEMPO TOTALMENTE SICURO (l’esperienza insegna che molti di questi casi sono risolti attraverso il ricorso a strumenti poco limpidi ovvero, più precisamente, che poggiano le loro basi sull’opacità, sull’occultamento di quale sia il vero titolare).
Compreso che il trust è latore di una concreta utilità e che non ha caratteristiche aliene al nostro ordinamento, occorre comprendere cosa sia
Innanzitutto: cos’è un trust? Un rapporto giuridico tra dei beni e dei soggetti. Un trust, concettualmente, èun rapporto giuridico in forza del quale dei diritti, per atto tra vivi o mortis causa, sono posti sotto il controllo di un trustee, il quale si obbliga ad amministrarli o: a) nell’interesse di coloro ai quali, al termine della durata del trust, dovranno essere trasferiti o b) per la realizzazione di uno scopo.
Caratteristiche indefettibili per potersi dire essere in presenza di un trust sono:
1. La volontà di dar vita al trust da parte del disponente (colui che scrive il programma di destinazione dei beni determinando i compiti del trustee, disegnando i beneficiarî disciplinandone i poteri e i diritti);
2. l’attribuzione di un compito, da svolgere secondo un programma coercibile, al trustee in favore dell’interesse dei beneficiarî o per la realizzazione di uno scopo;
3. l’esistenza di un fondo vincolato alla realizzazione del compito (non esiste trust senza beni tenendo conto che qualsiasi tipo di bene può essere conferito);
4. l’appartenenza temporanea del fondo al trustee (il quale, durante la vita del trust, ne ha il controllo e la proprietà esercitandone l’amministrazione nei limiti posti dal programma e funzionalmente al perseguimento delle finalità codificate dall’atto istitutivo);
5. la segregazione del patrimonio rispetto a quello del trsutee, dei beneficiarî e del disponente (nel senso che lo stesso sarà separato da quello del trustee e dunque sarà insensibile alle sue vicende personali tanto da non esserci confusione con il patrimonio di alcuno dei soggetti coinvolti);
6. la presenza, questa in genere meramente eventuale ma importante perché è un’importante forma di garanzia per il Disponente, di un Guardiano nominato dal disponente per controllare il trustee, per vigilare sul suo operato, per dargli istruzioni dando indicazioni sui coevi desideri del disponente, anche potendo avere dei poteri di veto sul suo operato;
7. la limitazione del ruolo del disponente alla sola fase genetica: il disponente istituisce il trust e, tendenzialmente, esce immediatamente di scena scomparendo. Salvo delle eccezioni (per esempio il disponente potrebbe nominare trustee se stesso o potrebbe riservare a se stesso il ruolo di guardiano oppure ancora potrebbe prevedere a proprio favore la posizione di beneficiario del reddito del trust) una volta che lo ha istituto il disponente cessa ogni ruolo;
8. L ‘esistenza di rimedi in capo ai beneficiarî, o ad altri soggetti, contro il trustee (l’esercizio dei poteri essendo in ogni caso sindacabile vuoi dai beneficiarî vuoi dal soggetto, chiamato guardiano, disegnato dal disponente).
Il trust, come noto, non solo è tradizionalmente alieno alla nostra cultura giuridica di derivazione romanistico-napoleonica ma anzi codifica una fenomenologia giuridica apparentemente sovversiva dei principî di stampo romanistico. Ed infatti, nel diritto civile, uno solo può essere il diritto reale pieno su un bene: nel senso che la proprietà, in linea di principio, appartiene ad un solo soggetto; potrà esistere una proprietà per quota sullo stesso bene ma non esiste (con la sola eccezione della multiproprietà che è però istituto assai recente) una proprietà multipla, e per l’intero, moltiplicata per vari soggetti.
È dunque utile, stando così le cose, comprendere il trust cercando di avvicinarlo per prossimità d’utilità sostanziale, pure con delle evidenti forzature, ai fenomeni giuridici che conosciamo avendo subito cura di precisare la valenza meramente scolastica del tentativo. Ogni tipo legale codifica un tipo sociale: nel senso che ogni istituto di diritto cristallizza, in una forma, un’istanza socialmente sentita. Indubbiamente il “tipo legale trust” intercetta una fenomenologia sociale ben nota anche nel diritto civile: alludo a quegli istituti, si pensi ad esempio al mandato fiduciario, che portano a distinguere la posizione dominicale sceverndola da quella beneficiaria e in virtù dei quali il bene appartiene ad un soggetto da quello che ne ritira l’utilità sostanziale.
Perché un soggetto dovrebbe intestare la proprietà ad un terzo? L’ampio ricorso al mandato fiduciario, o alle società di comodo, rende evidente il buon fondamento di una certezza: esiste un’infinita antologia di casi in cui è opportuno, o più efficiente, che un bene appartenga ad un soggetto diverso dal suo titolare. Si pensi, a mo’ d’esempio, a tre casi tipici:
• Tizio, avendo un elevato rischio professionale (per esempio perché imprenditore o libero professionista), desidera che certi suoi beni siano messi al riparo dalle incognite della professione facendo in modo che non siano aggredibili da eventuali creditori rimanendo destinati all’uso proprio e dei propri familiari;
• Caio, imprenditore, non ha eredi capaci di portare avanti la propria impresa. E vorrebbe che la stessa appartenesse ad un soggetto capace di proseguirla efficacemente nell’interesse proprio ma anche di quello della famiglia originaria dell’imprenditore che non ha la capacità o l’interesse di mandarla avanti;
• Mevio, padre di un figlio svantaggiato, vorrebbe che il proprio patrimonio sia amministrato, dopo la sua morte, efficientemente a vantaggio della prole incapace di prendersene cura avendo garanzie che l’interdizione e l’inabilitazione non danno (giacché il tutore o il curatore incipienti non rispondono delle loro cattive gestioni).
In tutte le situazioni ora rapidamente sunteggiate, in cui è opportuno che la proprietà spetti ad un terzo diverso da colui che ne è il beneficiario, spesso si ricorre al mandato fiduciario: il titolare trasferisce ad un fiduciario i propri diritti su un bene affinché costui se ne intesti la proprietà e lo amministri in virtù del mandato conferitogli. Per esempio si acquista un immobile fornendo il necessario rapporto di provvista ad un parente (esempio tipico il coniuge) che se ne intesta la proprietà. Oppure si costituisce una società di comodo con mera funzione d’intestazione di un certo compendio. Oppure, se c’è il vincolo del matrimonio, si ricorre al fondo patrimoniale (la cui durata è però rimessa alla durata aleatoria del matrimonio). Con apparente efficienza.
Se non fosse che, a latere delle disastrose conseguenze fiscali che si possono avere nel caso delle società di comodo, infiniti eventi possono funestare l’efficacia mandato fiduciario: alcuni sono patologici (si pensi, per esempio, alla trasgressione dei doveri fiduciarî forieri di una tutela meramente obbligatoria e non reale) altri sono fisiologici (il fiduciario, prima o poi, muore con il rischio, tra l’altro, di confusione patrimoniale con i beni dell’erede). Ma soprattutto tutti questi rimedi poggiano su una fenomenologia giuridica che trae stura dall’assenza di un reale affidamento: non c’è, insomma, un programma trasparente coercibile anzi essendo gli istituti animati da un occultamento foriero di un’incertezza giuridica appunto in quanto non c’è un affidamento reale difendibile. Tant’è che il “mandato fiduciario” è immediatamente evocativo del concetto di “segreto fiduciairo” al punto che i due lemmi finiscono per formare un’endiadi inscindibile.
Per comprendere il trust occorre appunto prendere stura:
• da un lato da questa contiguità sostanziale con un “tipo sociale” identico a uno disciplinato anche dal diritto civile: nel senso che, quanto all’utilità operativa in concreto, in entrambi i casi esiste una ragione che rende opportuna la discrasia tra la posizione dominicale e quella beneficiaria geminante dal fatto che è bene che un diritto sia intestato ad un soggetto diverso dal fruitore;
• dall’altro dalla completa diversità del tipo legale: il trust, diversamente dal mandato fiduciario, poggia su un affidamento reale al trustee in virtù di un programma trasparente coercibile creatore di una vera posizione beneficiaria. Con conseguenze concrete d’immediata evidenza: nel negozio fiduciario l’attribuzione proprietaria è piena e la trasgressione dei limiti posti dal pactum fiduciae è rimessa alle conseguenze obbligatorie non generando però una tutela erga omnes (se il fiduciario cede il bene ad un terzo non c’è opponibilità del patto fiducairio al terzo). Tutt’altro nel caso del trust: qui non solo la segregazione è perfetta e piena (diversamente da quel che accade, per esempio, nel caso del fondo patrimoniale) ma soprattutto il beneficiario è ab origine investito di un’azione reale di recupero del bene.
Tanto per dire che è paradossale la sfiducia – che in effetti si constata frequentemente – che il cliente di diritto civile ha nel trust: è semplicemente parossistico che, nella nostra cultura, da sempre ci si avvalga di prestanome (esempio tipico l’intestazione a teste di legno o a parenti) senza avere alcuna tutela e si dubiti degli istituti che, invece, danno una tutela giuridica blindata.
Perché è difficile, in Italia, capire i trust
Otto von Gierke, uno dei piùfamosi giuristi tedeschi di ogni tempo, apprendendo dal padre della storia del diritto inglese, Frederic William Maitland, la nozione di trust, ha lucidamente espresso la frustrata ed impotente condizione di ogni giurista di civil law dandoci una lezione accademica, e al contempo professionale, ad oggi insuperata in ordine a quale sia lo stato dell’arte del diritto civile continentale; con sdegno, infatti, professò che: “NON CAPIRÒ MAI QUESTO VOSTRO TRUST!”.
La condizione del più grande dei giuristi tedeschi che, a seconda dei punti di vista, o confessava, oppure più plausibilmente si vantava, di non comprendere il trust (disprezzandolo con l’aggettivo “your trust”), è perfettamente identica a quella in cui versa, purtroppo, la stragrande maggioranza degli imprenditori e dei professionisti italiani: per noi operatori continentali è estremamente difficile comprendere perché si dovrebbe dare luogo ad una moltiplicazione apparente di diritti e di posizioni sullo stesso bene.
All’uopo, si frappongono vari problemi:
• La stella polare della nostra cultura civilistica di stampo napoleonico – romanistico è adamantina nella scissione tra diritti reali e obbligazioni. Per noi non esistevano figure ibride: o un istituto afferisce alla proprietào al diritto delle obbligazioni. Se si è proprietari, lo si èper se stessi; ci èdifficile comprendere un istituto che non sta néda una parte (puro diritto di proprieta)̀ nédall’altra (diritto delle obbligazioni).
• Non siamo abituati a sentire invocato il concetto di fiducia e ancor meno a pensare che l’intestazione fiduciaria possa essere totalmente trasparente tanto da essere giuridicamente coercibile l’impegno fiduciario oggetto dell’affidamento. Siamo abituati ai prestanome, agli occultamenti del beneficiario effettivo ma siamo deficienti di un affidamento reale giuridicamente tutelabile. E dunque sottoponiamo il trust ad un’eterogenesi dei fini nel convincimento che debba esservi qualcosa di perverso per appagare la nostra mentalità subito ed ineluttabilmente evocativa di un obbligo di segretezza.
• Non capiamo come sia possibile che un bene possa essere immesso nella proprietàdi un terzo al fine di un progetto o per l’utilitàdi qualcuno; non comprendiamo come sia possibile l’affidamento trasparente di un nostro bene ad un terzo potendo confidare sul fatto che costui agirà effettivamente conformemente alle nostre decisioni. Insisto: ricorriamo a mezzi opachi con tranquillità ma non crediamo possibile una tutela efficiente e trasparente
• Non comprendiamo il fenomeno della segregazione patrimoniale totale: ed anzi sovvertiamo i termini. Nel trust la segregazione delle posizioni (per intenderci quella che impedisce che i beni rispondano dei debiti dei soggetti coinvolti) è il mezzo per tutelare l’effettivo conseguimento delle finalità volute dal disponente e non il fine in sé. Torniamo al caso di Epicuro: la tutela del fine (lasciare il giardino alla scuola) postula che gli eventi della vita di coloro che l’amministrino non si riverberino sul giardino. E dunque si tutela il bene rendendolo insensibile alle vicende personali segregandolo in modo che nessun creditore possa aggredirlo. Ebbene siamo incapaci di comprendere questa tutela del fine. Non riusciamo a non cogliere, in fondo, un’anima meno che elusiva nella costituzione del trust e per questo tramutiamo la garanzia che assicura il risultato nel fine dell’atto. E pensiamo che lo scopo del trust sia la frode dei creditori.
Il fatto è che, in Europa, abbiamo da molto tempo perso l’abitudine di cercare la Giustizia e, per questo, ci riesce estremamente difficile comprendere il trust.
Il diritto dei trust in briciole: cosa è e cosa non è trust
Come ho già detto in premessa, i trusts, prima facie, non suscitano alcuna simpatia evocando, nella migliore delle ipotesi, una complessità non esattamente decifrabile e, nella peggiore, una materia pruriginosa da cui ogni persona per bene dovrebbe guardarsi. Eppure i trusts si prestano ad un infinito numero di impieghi encomiabili, talora anche forieri di una giustizia sostanziale altrimenti non conseguibile: dalla tutela della famiglia a quella dell’efficienza della governance societaria. Un’antologia casistica amplissima accomunata dalla capacità di realizzare un’utilità condivisa abortendo i conflitti d’interesse garantendo la quadratura del cerchio in cui a ciascuno sia riconosciuto il suo.
Non è facile, stante il numero degli usi possibili e l’estraneità alla cultura di diritto civile, comprenderli ma tutti sono accomunati:
D. Dall’esigenza di proteggere una certa situazione segregando (ovvero, più semplicemente, “blindando”) un patrimonio per la realizzazione di uno scopo (Tizio istituisce un trust con funzione di garanzia per un proprio debito per evitare gli immobilismi di un’ipoteca) o per soddisfare l’interesse dei beneficiarî designati (Caio istituisce un trust per proteggere la propria famiglia);
E. Dall’attuazione del programma di tutela attraverso la “blindatura” del patrimonio mettendolo al riparo dagli incidenti che possono funestare l’aspettativa di fruizione da parte di un novero di beneficiari o dalla realizzazione di uno scopo.
Il trust è il cardine del diritto anglosassone: in quella cultura nacque e si sviluppò per risolvere le criticità nella trasmissione della proprietà nel diritto feudale e per superare alcune rigidità nel sistema di amministrazione della Giustizia fondato sulla conformità ai precedenti giurisprudenziali.
Nella consapevolezza delle certezze tradizionalmente in voga in coloro che si avvicinano all’istituto, partiamo doverosamente dal premettere quello che il trust non è:
• Non è né uno strumento di evasione fiscale (ancorché possa arrecare dei vantaggi legittimi) né un mezzo per l’elusione dei diritti di qualcuno (in particolare non è uno strumento utilizzabile con successo per compromettere la soddisfazione dei diritti dei creditori o per ledere quelli dei legittimarî). Ed infatti, oltre che essere oggetto dei rimedi civilistici (tra cui l’azione revocatoria o quella di riduzione), per essere valido un trust deve essere conforme a’ sensi della propria legge regolatrice (e non esiste alcuna legge al mondo che disciplini il trust non sanzionandone fini illeciti) e deve essere riconoscibile ai sensi della Convenzione dell’Aja (per cui deve spiegare di perseguire un programma meritevole di tutela motivando di avere precisi requisiti di rispetto delle norme imperative nazionali e dell’ordine pubblico);
• Non è un contatto, appartenendo ai diritti reali e non alle obbligazioni (con la conseguenza operativa per cui, per esempio, non è affetto dalle patologie tipiche dei contratti e non è risolvibile per mutuo consenso). Ed infatti il trust nasce e si sviluppa in Inghilterra in seno ai diritti reali non solo al di fuori del concetto civilistico di contratto ma proprio per sopperire ai problemi di coscienza (equity) creati dalla chiusura asfittica del sistema dei precedenti privi dei correttivi di diritto civile nelle patologie negoziali;
• Non è un una società e anzi – nonostante gli errori talora avallati anche dal legislatore tributario italiano – non è un ente e non ha personalità giuridica (dunque è del tutto priva di fondamento l’enfasi posta “al trust” quasi che questo fosse entificato in un soggetto);
•Il trust – per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale – non esiste: nel senso che non esiste un istituto inteso come negozio a causa tipica dovendosi in ogni caso parare di “trust per uno specifico impiego”. Ne consegue che, a voler essere rigorosi, ogni compendio dovrebbe essere specificamente relativizzato all’uso (esempio: spiegazione del trust per gestione di assetti societari, per la tutela dei soggetti svantaggiati, per la programmazione del dopo di noi, per la gestione di un progetto filantropico, per l’amministrazione di beni ecclesiastici, …).
Nel corso dei secoli, nonostante l’estrema diversificazione dei modelli causali, il trust non ha mai fatto venir meno la vocazione originaria: superare le rigidità dell’ordinamento consentendo al titolare di una situazione giuridica la selezione degli interessi (meritevoli di tutela secondo la valutazione dell’ordinamento) tutelandoli in un modo diverso rispetto a quel che farebbe il diritto.
Lungi da quanto si potrebbe pensare, i Trusts, sia pure per secoli non conosciuti dal nostro ordinamento, e dunque apparentemente concepiti come qualcosa di lontano dalla nostra tradizione giuridica, sono intervenuti per innovare semplificando; laddove il diritto continentale ha complicato le soluzioni inventando una superfetazione di concettose previsioni ricche di approfondimenti dogmatici, ma spesso talmente complesse da ridursi a enormi complicazioni, i Trusts servono a semplificare, a rendere più sicura la vocazione di realizzare una certa finalità confidando sulla realizzazione da parte di un terzo.
Contrariamente ad insinuazioni completamente prive di significato ed assolutamente erronee, i Trusts non hanno alcunché d’illecito; il problema è che spesso, purtroppo, in una cultura come la nostra, da sempre adusa alla simulazione e alla corruzione dei fini, sono usati da professionisti non consapevoli che li propongono come se l’effetto segregativo avesse insita qualche finalità illecita.
Il Trust, a seguito di una serie di passaggi normativi, pure non trovando (ancora e fortunatamente) una legge regolatrice in Italia, è oramai conosciuto anche dall’ordinamento giuridico italiano; a decorrere dal 1 gennaio 1992, infatti, a seguito della ratifica della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, intervenuta con la legge 16 ottobre 1989 n.364, i Trusts trovano libero ingresso potendo esistere i cd. “Trusts meramente interni” intendendosi per tali quei Trusts che nulla hanno di straniero eccetto la legge applicabile.
Perché sono nati i trust
Se si comprende perché, storicamente e sociologicamente, è nato il trust (ovvero se si va alla fonte della funzione economico sociale svolta) scompaiono molti degli equivoci e molte delle leggende nel corso del tempo inventate.
Dico subito che il trust, diversamente da quanto spesso sento dire, non ha nulla a che vedere con il fenomeno delle crociate: non esiste, a mia memoria, un solo precedente giurisprudenziale che giustifichi l’assunto, ore rotundo propugnato da più parti, che il trust fosse istituto dal cavaliere in partenza per la Terra Santa.
Il Trust è uno strumento di antica e nobile tradizione, storicamente sorto nelle corti vescovili nel sistema giuridico anglosassone dell’equità per risolvere dei problemi di coscienza. Mi riferisco alla soluzione delle difficoltà di trasmissione della proprietà nel diritto feudale (ovvero, più precisamente, per i problemi della trasmissione ereditaria delle concessioni regie del feudo) e, soprattutto, per superare alcune rigidità nel sistema giurisprudenziale dei precedenti (nel diritto civile del tempo l’amministrazione della Giustizia avveniva sussumendo la fattispecie concreta nel precedente giurisprudenziale con la conseguenza che il difetto di un precedente implicava l’impossibilità di tutelare il caso specifico)
In buona sostanza, andando in fondo alla questione, il trust nasce per un doppio problema di coscienza o, se più piace, per un doppio problema etico:
a) Innanzitutto c’è un problema etico della proprietà dei religiosi: un religioso che ha fatto voto di povertà, piuttosto che un Ordine religioso che abbia fatto voto di povertà, non può essere proprietario di un bene per un problema etico; occorre trovare uno strumento che consenta che l’Ordine tragga un’utilità del bene risolvendo il problema di coscienza per cui un Ordine non può essere proprietario del bene. Ma non può essere proprietario del bene anche in considerazione della poca sicurezza della proprietà privata individuale: occorre, infatti, che il bene del religioso non si confonda con la situazione personale perché, se così fosse, sarebbe rimesso alla sua vicenda successoria. Ecco allora che il trust consente di risolvere un problema di coscienza in quanto l’Ordine religioso non sarà proprietario nel proprio ma nell’altrui interesse per far in modo che i beni siano funzionalizzati ad un impiego eticamente accettabile. Soprattutto, i beni rimarranno affrancati dalle vicende successorie personali con conseguente tutela dell’ordine;
b) Ma c’è poi un problema etico collettivo. Se Tizio compra da Caio malamente, in quanto, per esempio, il contratto è annullabile, è un problema di coscienza il fatto che il Giudice sia privo di una formula che ripristini la situazione sostanziale (all’epoca non esisteva l’istituto dell’annullamento del contratto in quanto il diritto anglosassone non conosceva ancora il contratto). Nasce dunque il trust per rendere una soluzione etica ovvero, in buona sostanza, per superare il problema di coscienza che si pone nella vicenda di Tizio che rimanga privo di una tutela a fronte del suo contratto annullabile.
Dunque la genesi del trust è di porsi al servizio dei problemi di coscienza. Nel corso dei secoli, dal loro nucleo di diritto “feudale” originario, i Trusts si sono sviluppati divenendo l’architrave del diritto moderno prestandosi a servire le finalità più eterogenee. Di fatto, a buon diritto si può dire che i Trusts riguardano oggi ogni settore della vita prestandosi alla tutela efficace ed alla efficiente realizzazione di qualsiasi progetto giuridicamente meritevole di protezione da parte dell’ordinamento. Se è vero che l’evoluzione è stata profondissima, non meno evidente è che immutata è rimasta la funzione: selezionare, e dunque proteggere, interessi meritevoli di tutela.
A cosa servono i trusts in Italia
Il problema dei trusts è, in buona sostanza, rappresentato dall’ignoranza e dalla difficoltà di comprenderne i meccanismi di funzionamento: molto si è fatto, nel corso degli ultimi anni, ma ancora insufficiente è la consapevolezza dell’ampiezza del novero delle situazioni in cui l’istituto potrebbe intervenire con grande utilità risolvendo problemi altrimenti difficili da risolvere. Occorre una rivoluzione culturale che traduca, in concreto, l’antologia delle possibili applicazioni.
Premesso che, quando si descrive l’utilità dell’istituto, occorre avere l’accortezza di considerare che non esiste il trust concepibile dogmaticamente in quanto tale dovendosi piuttosto parlare di trusts al plurale stante l’assenza di un unico modello causale (esistono tanti trusts quanti i possibili impieghi materiali immaginabili), possiamo comunque provare a tipizzare alcuni degli aspetti ricorrenti che connotano ogni trust.
Ogni trust assicura, almeno, i seguenti vantaggi minimi:
La tutela di certi interessi in modo perfettamente conforme rispetto alla gerarchia di valori benevisi all’autonomia privata. La precipua funzione dei trusts è quella di selezionare gli interessi e di proteggerli diversamente dagli altri istituti in quanto la loro tutela è ancorata ai dettami della volontà privata.
L’efficacia globale e reale del vincolo impresso rispetto all’utilità dei beneficiari o alla realizzazione di uno scopo. La protezione del patrimonio dalle vicende personali o patrimoniali che possano colpire il disponente, il trustee o i beneficiari conseguita attraverso la segregazione patrimoniale dei beni conferiti.
La perfetta trasparenza della gestione: ogni trust è fondato su una struttura perfettamente limpida. La completa sicurezza della gestione: il fondo in trust affidato al trustee è oggetto di garanzie reali stanti i rimedi coercitivi a disposizione per vigilare sull’esecuzione del programma dell’atto istitutivo.
La preservazione dell’unitarietà del patrimonio consentendone la gestione unitaria e la conservazione nel tempo evitando il rischio che venga disperso, diviso o impiegato per scopi diversi da quelli stabiliti dal disponente.
La possibilità di perseguire efficacemente le finalità che il disponente si è prefisso, indipendentemente dalla propria capacità di intendere e di volere. Si pensi alla possibilità di garantire con i propri beni il futuro di un familiare diversamente abile o meno fortunato ovvero il proprio qualora per una qualsiasi ragione ci si dovesse trovare nella condizione di non poterlo fare direttamente.
I consistenti e del tutto leciti vantaggi fiscali previsti dall’ordinamento italiano in tema di tassazione degli utili conseguiti da società conferite in Trust o in sede di pianificazione della propria successione
Gli usi del trust nella trincea professionale italiana
In un ordinamento come quello italiano in cui non esiste ancora una legge regolatrice dei trusts, il primo problema non riguarda la definizione ma l’uso: prima di capire cosa sia un trust, insomma, si vuole capire a cosa serva. La risposta è semplice: a tutelare una situazione legittimamente ma diversamente da come la tutelerebbe la legge.
Il vantaggio deriva appunto dalla capacità, tipica dei trusts, di garantire il conseguimento della tutela di un interesse, coerentemente ai principî generali della legge, ma in un modo diverso da quello che sarebbe, in difetto di ricorso al trust, l’assetto previsto dall’ordinamento. Dunque il cliente si tutela non contro o inviso la legge, ma in un modo diverso da quello figlio della legge visto che la logica non è quella, asettica, dell’ordinamento ma quella, specifica e casistica, di ciascun interessato titolare della situazione.
Meglio concretizzare con degli esempi. È noto che gli strumenti civilistici tradizionali scontano inefficienze sempre più gravi, talora creando, come insegna la cronaca recente, anche problemi gravi. L’antologia cui si può pensare è infinita: dalla successione ereditaria (in Italia ancorata a logiche veterotestamentarie del tutto inattuali rispetto, per esempio, allo stato della famiglia), dal dialogo con una banca privata svizzera per la gestione della fortuna di famiglia (un tempo affidato quasi esclusivamente a strutture fittizie), alla gestione del passaggio generazionale dell’impresa, alla messa in sicurezza del patrimonio per la tutela di figli svantaggiati, alla gestione di progetti filantropici, ai patti di sindacato.
Sono tutti esempi di situazioni in cui gli strumenti tradizionali, nella loro impostazione asettica e sorda alle contingenze del caso, frustrerebbero le giuste preoccupazioni avvertite dagli operatori. Basti pensare alla trasmissione ereditaria di un’impresa (oggetto di calcoli percentuali di suddivisione tra gli eredi del tutto affrancai dalla capacità individuale di portare avanti l’impresa stessa). Basti pensare, più in generale, ai meccanismi che presidiano il calcolo delle quote degli eredi necessari: non conta, per il diritto civile, quale sia l’interesse dell’intera famiglia alla suddivisione efficiente dei beni bastando al nostro codice il rispetto di parametri numerici asettici di cui ci si compiace a considerare il rispetto formale. I trusts intervengono appunto selezionando gli interessi ordinandoli secondo una gerarchia di priorità che raggiunga la quadratura del cerchio dando a ciascuno il suo, tutelando l’insieme soddisfacendo le aspettative di ciascuno, distinguendo, all’interno dei membri della famiglia, coloro che hanno da coloro che non hanno la volontà/la capacità di portare avanti l’impresa
Tutto questo, però, non basta. Sarebbe sciocco negare che, in Italia, anche da autorevoli voci proviene spesso la tesi per cui l’istituto sarebbe valido ed astrattamente utile ma sarebbe impossibile servirsene di fatto per le conseguenze necessariamente negative cui ci si esporrebbe. Non si contano le occasioni in cui, nel corso degli ultimi anni, abbiamo parlato con clienti dapprincipio proni ad escludere il trust per principio proprio perché convinti di esporsi a pregiudizi e ad attenzioni latrici d’ispezioni, controlli o sanzioni.
Il paradosso, in realtà, è solo apparente: in una cultura, quale quella italiana, in cui ciascuna professione è ermeticamente chiusa al nuovo e in cui la sensibilità collettiva è adusa da sempre alla simulazione e alla distorsione dei fini tipici degli istituti (spesso corrotti a servire a scopi non leciti) la demonizzazione del trust è stata, per certi versi, l’ineluttabile fisiologia di un percorso che ha interessato i più vari istituti (basti pensare, tanto per fare un paragone molto vicino, a quello che è successo al fondo patrimoniale che da mezzo protezione della famiglia è divenuto il viatico per antonomasia della frode dei diritti dei creditori).
Orbene la questione è proprio questa: uno studio legale che si occupa dei trusts non può non partire, per contestualizzare le proprie attività, da un lato dalla valorizzazione della loro conclamanta utilità (per inciso cristallizzata in modo preclaro dalla coeva giurisprudenza) e dall’altro dalla loro nomea come detto non sempre positiva. Questa consapevolezza ci consente di essere molto chiari: SOLO IN MALAFEDE SI PUÒ NEGARE L’UTILITÀ, QUOTIDIANAMENTE SPERIMENTATA IN TRINCEA, DEI TRUSTS. Chi parla male dei trusts in generale ha, in fondo, il limite o dell’ignoranza o della malafede in quanto solo ignorando, o essendo disonesti, si può confutare la bontà della tesi che vuole i trusts avere avuto un pacifico ingresso nel nostro ordinamento a seguito di una mirabile apertura da parte di centinaia di precedenti giurisprudenziali positivi. Spesso poi non si tratta d’ignoranza ma di puro interesse a non vedere fatto ricorso ad un istituto che non si coltiva essendo del tutto fisiologico che il professionista, magari di provincia, demonizzi un istituto che non conosce nella convinzione, magari, di poter perdere un certo cliente che necessariamente deve ricorrere ad un terzo capace di redigere con criterio l’atto istitutivo.
Uno degli equivoci più speciosi ed infondati che spesso si sentono paventare avverso l’applicazione dei trusts riguarda la presunta obiezione per cui gli stessi sarebbero necessariamente destinati a trovare applicazione nei soli casi in cui ci siano delle enormi fortune o degli interessi torbidi da proteggere.
Nulla di più falso: ne conclama la palese infondatezza proprio la tutela dei soggetti svantaggiati (tali dovendosi intendere non solo i diversamente abili ma, ben più ampiamente, tutti i soggetti che, per qualsiasi motivo, non siano completamente capaci di tutelare da soli una loro situazione patrimoniale)
Ma lo stesso ragionamento vale in tanti casi legati alla proprietà immobiliare: si pensi, a titolo d’esempio, a tutti coloro che (amministratori, sindaci di società, liberi professionisti, esercenti una professione sanitaria) abbiano un elevato rischio professionale (l’esempio coevo più grave è proprio quello dei sindaci di società) e che vogliano tutela le loro proprietà nell’interesse proprio e della famiglia.
Antologia delle principali possibilità d’impiego del trust
Non c’è alcun dubbio: il problema in Italia dei trusts afferisce alla scarsa capacità di comprenderne le possibilità d’impiego. Se infatti è innegabile che molti siano stati i progressi compiuti, è ancora insufficiente la consapevolezza della straordinaria ampiezza della casistica in cui il ricorso al trust può manifestare la propria utilità. Si pensi ad un caso concreto: il trust con funzione di garanzia dà enormi vantaggi in termini di efficienza della protezione delle razioni dei creditori quanto dei debitori: ancora scarsa, però, nella prassi, il ricorso al trust come alternativa alle garanzie tipiche o come strumento di garanzia, per esempio, nell’emissione di un prestito obbligazionario
• Trusts nel diritto societario per la gestione di partecipazioni e come alternativa ai patti parasociali; • Trust per la famiglia e trusts nella fase di separazione e divorzio (per evitare il peso delle rigidità cui gli assetti imposti dai Tribunali possono spesso essere forieri);
• Trusts come alternativa al fondo patrimoniale (a prescindere dal fatto che il fondo patrimoniale – non avendo una causa tipica diversa dalla protezione dall’aggressione dei creditori – non ha, in caso di contestazione (anche penale) un programma difendibile da eccepire, il vero problema è che il trust postula, per potersi istituire, il vincolo del matrimonio e dura finché vive il matrimonio. Si pensi, anche alla luce delle varie situazioni legate alla nuova condizione della famiglia, a quanti sono esclusi da tutela perché non vogliono o non possono sposarsi);
• Trusts in materia fallimentare; • Trusts come alternativa alle fondazioni; • Trusts di scopo, di garanzia e come alternativa all’ipoteca (come noto una garanzia tipica, impedendo di fatto la commerciabilità di un bene, può creare dei gravissimi danni economici mentre il trust garantirebbe l’operatività senza vincoli rigidi. A tacere dalla semplificazione in fase di realizzo);
• Trusts per le coppie di fatto o non eterosessuali; • Trusts per i soggetti deboli (non necessariamente disabili: si pensi al parente meno dotato o al meno interessato); • Trusts per i diversamente abili; • Trusts per il passaggio generazionale dell’impresa; • Trusts holding (recte: trust con funzione di holding);
• Trusts Onlus; • Trusts nella gestione degli appalti pubblici; • Trusts con per gestioni di project financing; • Trusts per pensionati; • Trust nella gestione della società professionale; • Trusts per la gestione di uno studio professionale.